Se è vero che la maggior parte dei progetti di modernizzazione portati avanti dai Borbone sono rimasti sulla carta, bisogna ammettere che l’isola d’Ischia ha costituito una felice eccezione. Senza Giovanni Gussone, il botanico di corte, non ci sarebbero state le pinete; senza la Casa Reale non ci sarebbe stata la strada interna di collegamento tra Forio e la parte alta di Casamicciola Terme; senza Ferdinando II non ci sarebbe stato il Porto di Ischia, di sicuro l’infrastruttura più importante dell’intera isola.
Del resto, se Ischia agli inizi del ‘900, secondo due turiste americane, Augustine e Sybil Fitzgerald, appariva "meno selvatica e più abitata” rispetto al resto dell’isola, significa appunto che l’apertura a porto, nel 1854, di quello che per secoli era stato un piccolo lago di origine vulcanica, aveva impiegato sì e no cinquant’anni anni a modificare economia e stili di vita del versante settentrionale dell’isola. Beninteso, prima della costa nord e poi, con l’avvento del turismo, dell’intero territorio.
E qui veniamo all’attualità, a quei piccoli cambiamenti che avvengono per primi a livello del linguaggio, cui generalmente si dà poca importanza e che invece svelano le traiettorie del cambiamento. "Ci vediamo al porto" oppure "abbasc 'o puort" è da anni il refrain di comitive di ragazzi e ragazze che hanno eletto, quest’ area, - dal Parco della Pagoda, sulla riva sinistra, fino ai locali dell’opposta riva destra -, a punto nevralgico dell’Ischia by night.
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